Fra un fico e un pero. Una domenica incastonata di gemme.

La ringhiera che protegge dalle scale.

Lunedi di pioggia dopo una domenica puramente primaverile.
E, durante qualche pausa strappata a una intensa giornata di lavoro trascorsa a Firenze, dai Georgofili al Mercato Centrale, fino a Palazzo Vecchio e il Caffè Rivoire, mi è “punta vaghezza” dell’ieri, quando, vestiti i panni del contadino domenicale, ho faticato nel mio campo tutta la giornata.

Avevo da piantare due alberi da frutto che erano in casa, in vasi di plastica, già da qualche tempo, un pero e un fico. Per prepararmi alla sfida, alla corretta piantumazione, avevo lungamente discettato sul da farsi col suocero fin dal giorno prima, e poi, di buon mattino, mi ero recato alla Grande Madre Coop, approfittando di un’offerta speciale sul terriccio.

Il pero è in realtà un nashi, un albero da frutto giapponese dalle forme e dai sapori di melo, ma dagli splendidi fiori tipicamente da pero, che ho piantato dove a breve (spero) ci sarà il prato, al posto di un ciliegio che purtroppo ho dovuto abbattere. Compiuta questa stressante prima missione – odio le prime volte! -, e dopo aver per ore compiuto le seguenti operazioni: scavo della buca – in realtà fatto fare dal vicino con l’escavatore, terriccio della GM Coop, togliere la pianta dal vaso di plastica (operazione mai banale, soprattutto per il fico), concimazione, un po’ di azoto che non guasta mai, altra terra, altro concime, acqua ad annaffiare, mi sono fatto fare una bella foto, io e il pero. Il pero già fiorito e io col mio nuovo barbone.

Io, con la mia nuova barba, e il pero nashi.

Poi, ringalluzzito da questo apparente successo (solo il tempo dirà se ho fatto bene), mi sono dedicato al fico. Il fico tutti me lo sconsigliavano, ma io sono da sempre stregato dai suoi profumi e ghiotto dei suoi fiori-frutti: il fico (l’ho scoperto anche io da poco!) produce dei frutti che in realtà sono i suoi fiori, cioè non compie il classico percorso botanico del fiore che si fa frutto. L’albero di fico é sempre molto accogliente e nel mio immaginario un classico della casa contadina. Il turca dà fichi due volte l’anno e ha la buccia scura e finissima, commestibile come il suo dolcissimo interno: sono ormai appassionato di schede tecniche che i vivai forniscono sugli alberi da frutto: “le so tutte”! Inoltre avevo bisogno di un albero rustico da mettere accanto al porcile, per mitigarne lo slancio gotico-littorio, insomma per farlo sembrare meno alto (o meno cappella di famiglia, come lo ha battezzato il Micio). La parte più complicata, a dir poco, è stata togliere il fico dal suo vaso di plastica, in quanto le radici si erano aggrappate al sedere del vaso. A un certo punto ho anche pensato di gettare il fico col suo vaso nel fuoco che nel frattempo stava schioppettando vicino a me, tanta era la frustrazione (e il sudore, ero fradicio…) nel cercare di staccare la pianta dal suo vaso.

Tranche de vie

Ma soprattutto, mentre io imprecavo per piantare i due pertinaci alberelli, la calda giornata ha fatto sì che gemmassero le viti! E questa scoperta, osservare questa nascita, è stata senz’altro il climax della mia domenica: la mia potatura di qualche giorno fa, tele-adiuvata da Lorena, ha fatto il suo dovere! Anche troppo – visto che l’obiettivo era avere una / due gemme per pianta per favorire la crescita. Ma mi accontento!

Insomma, un fine settimana dove letteralmente la primavera ha nutrito la natura, rigenerato il mio spirito e attutito alcune malinconie. Anche l’albicocco e il caco, oltre ai 3 noci, hanno germogliato. Ormai tutte le colture, a eccezione di un astone di ciliegio e del melo rotella hanno avuto il loro risveglio. E anche io mi sto scoprendo ricompensato in serenità e lucidità del tempo che riesco a dedicare alle cure della mia piccola parcella agricola.

E oggi, malgrado la pioggia, sotto le magnificenze dei palazzi fiorentini, nei miei compiti e nelle mie vesti di lavoratore Ruffino, ero proprio “a fuoco”, concentrato, carico e fecondo di idee.

Gemme, gemme, gemme!