Singapore e l’isola del futuro.

Singapore mi ha accolto senza timidezze, rivelandosi nella sua eleganza futuristica e tropicale. 

Una città giardino, con piante e fiori colorati (l’orchidea è il fiore della città ed è orgogliosamente presente ovunque) e grandi parchi verdi, fra cui gli incredibili Gardens by the Bay (a metà fra un locus amoenus 2.0 e l’attualizzazione de Il giardino delle delizie di Bosch), costruita attorno a un fiume – il fiume Singapore appunto – , e una baia, oggi la celeberrima area di Marina Bay.

Da questa essenza verde si erge un modernismo avanguardistico, sofisticato e tecnologico, soprattutto attorno all’acqua: strutture e grattacieli di mirabolante equilibrio e slancio architettonico che degradano, man mano che ci si allontana dalla baia, fulcro utopistico della città che parla il futurese, in quartieri a identità etnica ben definita (Little India, Chinatown etc) e con approcci urbanistici più sobri e dallo stile coloniale cinese, che richiama gli anni della fondazione. Poi le luci, i led, elemento di design mirabilmente integrato a creare linee e giochi prospettici altrettanto essenziali nel dialogare e scolpire la fisionomia di Singapore, almeno quanto il suo verde e i suoi palazzi a firma delle più grandi archistar del mondo.

Singapore è una isola, concepita come città stato solo a partire dai primi anni dell’Ottocento, grazie a un inglese, Sir Stamford, che decise di dare una nuova anima al fino ad allora piccolo villaggio di pescatori. Storicamente parte della Malesia, indipendente da circa 60 anni, la sonnolente isoletta di pochi pescatori si è progressivamente incarnata in una potente e gorgogliante città-stato, dalla testa di leone e dal corpo di pesce, con un porto commerciale navale e aereo fra i più grandi al mondo.

Ho avuto a disposizione una domenica per me: quelle giornate in cui la malinconia stringe perché vorresti essere a casa con la famiglia, oppure li ma con chi vuoi bene, non da solo. Diluviava con brevi potenti temporali, l’aria era gonfia di umidità, il cemento ribolliva così come le lussurreggianti piante grondavano ossigeno, ma ho deciso di passeggiarla: una lunga lunghissima camminata a periplo fra le mirabilia della baia e con un detour per pranzo a Chinatown, dove ho reincontrato un ex collega nativo dell’isola e mangiato in quella che mi appariva una bettola ma dai sapori che, portata dopo portata, si rivelavano poi buonissimi – “Francesco this place has 1 Michelin star”: mi ha poi confessato sorridendo Alan. 

Alla fine i chilometri percorsi sono stati quasi 20. Rorido di sudore, solo con qualche pausa birra (la Tiger, birra locale) per reidratarmi di sali minerali e un gelato al mango comprato da un raro street food vendor – se ne vedono pochi a differenza che in altre città d’Asia – , non mi sono mai fermato: ho goduto del tramonto sulla baia, calcato il ponte ellittico di acciaio coi led rossi a rappresentazione del DNA, ammirato stupito i tre grattacieli su cui sopra si appoggia un quarto edificio a forma di nave, o di dolmen, goduto di un fiore di calastruzzo di dimensioni gigantesche con enormi petali illuminati adibito a museo della scienza, osservato degli alberi artificiali alti 50 metri su cui si aggrappavano in un groviglio di profumi e colori fiori e rampicanti (e che tanto mi hanno ricordato l’albero della vita all’Expo di Milano), esplorato come un Avatar una foresta tropicale ricreata dentro due emisferi di vetro e acciaio, snobbato la statua del leone nel corpo di pesce, stemma della città ma davvero questa di dubbio gusto, immaginato i ruggiti delle monoposto osservando le tribune del circuito cittadino di F1, pensato al passato dell’isola città osservando le casette in stile coloniale cinese a Chinatown e le  abitazioni dei pescatori, retaggi dell’antico villaggio quasi del tutto fagocitato dalla Singapore di oggi.

Una città che mi ha stregato, ricca, con una ristorazione evoluta e cosmopolita, capace di creare mode e tendenze, dove i vini italiani funzionano soprattutto con la cucina internazionale: “If you succeed in Singapore, you succeed in the whole Asia”, ha asserito il mio importatore. Io ho fatto il massimo per portare la mia piccola storia di toscanità e i vini Ruffino (e anche La Toscana di Ruffino, il libro, che piacere fare vedere la casa, le mie storie e vedere quanto coinvolgano e catturino anche da così lontano) in questa eccitante e vibrante isola avanti nel futuro 15 ore di volo da Firenze.